Sono
il futuro delle Contrade. Li guardiamo con orgoglio quando indossano
le monture con i colori amati o quando svolgono il servizio in
Società. Li guardiamo con apprensione quando esagerano
nell’esprimere la loro esuberante vitalità. Sono i giovani
contradaioli: possiamo dire di conoscerli veramente? Eppure siamo
stati ragazzi anche noi: non è mica passato un secolo!
Qualche
volta ci preoccupa il loro stile di vita. Siamo diventati
bacchettoni? Forse in passato abbiamo fatto gli stessi sbagli e
vorremmo semplicemente parlare con loro, per metterli in guardia. Ma
quant’è difficile parlare con loro!
Allora
abbiamo scritto un questionario. Anonimo. Ci siamo fatti raccontare
del loro rapporto con l’alcol e con i genitori, con le “canne”
e con l’amore, con i “social” e con lo studio. Poi una sera li
abbiamo portati nel Leocorno. Non avevano tanta voglia di venire. Li
abbiamo dovuti attirare con la promessa (mantenuta) di grandi
quantità di pizza e di ciaccino con la nutella.
Ad
attenderli, oltre ad un salone che non avremmo mai sperato di
riempire come invece è successo, c’era uno psicologo di Arezzo: si
chiama Luca Deganutti ed ha fondato un centro di solidarietà; lavora
con i ragazzi che hanno provato di tutto fuorché una vita facile.
Alcuni di questi ragazzi erano con lui ed hanno raccontato le loro
storie. A quel punto, però, gli adulti si erano allontanati, per non
alimentare imbarazzi con la loro presenza. Lasciamo dunque la parola
a chi è rimasto ad ascoltare:
“A
prima vista il salone dove si sarebbe svolto l’incontro poteva
apparire immenso, dispersivo. Le sedie accuratamente disposte in
cerchio avrebbero però favorito la socializzazione e la complicità
tra ragazzi… e così è stato. Man mano che i gruppetti dei giovani
delle consorelle si sono seduti si è venuto a creare un unico grande
gruppo, non più piccole realtà frammentate. Dopo una breve
introduzione da parte dello psicologo, a cui in pochi sembravano dare
ascolto, sono stati proiettati dei video. Anche questi non hanno
colpito più di tanto l’attenzione dei ragazzi che hanno continuato
indisturbati a parlare dei fatti propri con gli amici seduti accanto
oppure a ‘spippolare’ con il cellulare. Poi, all’improvviso,
tutto è cambiato… l’attenzione si è proiettata tutta in
un’unica direzione, i volti si sono fatti più seri… sì, tutto è
cambiato quando i ragazzi della comunità di recupero per
tossicodipendenti di Arezzo hanno raccontato con il cuore in mano le
loro storie: storie di droga, di criminalità, di dipendenza…
storie di dolore. Le loro testimonianze dirette hanno colpito nel
segno. Nel salone è calato un silenzio assoluto. I quattro ragazzi
testimoni viventi di vite allo sbando erano come illuminati da un
grande occhio di bue. I discorsi futili fatti fino a quel momento
potevano essere rimandati: era ora di ascoltare, con le orecchie ma
soprattutto con il cuore. Alcuni dei nostri ragazzi sono intervenuti
nella fase di dibattito conclusiva con piccole confessioni e
considerazioni personali. Forse, nonostante l’era dei mass-media,
della comunicazione istantanea, degli smart-phone e dei social
network, il valore umano della comunicazione diretta e non virtuale,
il guardarsi dritti negli occhi e l’ascoltare le modulazioni delle
voci che trasmettono sentimenti ed esperienze hanno ancora un grande
significato.”
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