Per i senesi,
contradaioli o meno, il Palio è davvero così importante e avvertito
intimamente da cadenzare alcune fasi della vita? Paolo Cesarini, uno
dei più raffinati scrittori senesi del ‘900 ingiustamente
dimenticato, nel suo delizioso Il Senese indiscreto narra di
Rigo Pachetti, un concittadino non legato al mondo delle Contrade,
che il 2 luglio 1917, nel corso della prima guerra mondiale, fu
gravemente ferito al volto. Caduto a terra, e per giunta preso a
calci dai portaferiti austriaci, pensò di non avere scampo, e prima
di svenire gli cadde lo sguardo sull’orologio: erano le sette.
Dimenticando che durante la guerra il Palio era sospeso, pensò: “A
quest’ora corre il Palio”.
Se, in una circostanza
tanto drammatica, a un senese non contradaiolo venne in mente il
Palio, vuol dire che davvero la nostra festa è entrata in noi al
punto di scandire, naturalmente insieme con altri episodi, alcuni
momenti fondamentali della nostra vita personale.
E questo è confermato
anche da un altro episodio che ho sentito più volte raccontare
direttamente da chi lo ha vissuto, il mio babbo Umberto.
Reduce dalla guerra in
Jugoslavia e in Albania, Umberto Leoncini rientrò fortunosamente e
fortunatamente in Italia nel luglio 1945 senza avere notizie di cosa
fosse successo a Siena. Sapeva che Siena era stata bombardata, ma
quanto e con quali conseguenze non lo sapeva. Non sapeva neppure se
la sua famiglia fosse stata interessata dai bombardamenti oppure no.
Il suo ritorno era un autentico viaggio verso l’ignoto.
Giunto con mezzi di
fortuna a Poggibonsi, Umberto proseguì a piedi verso Siena. Passando
dalla Tognazza vide la Torre e il campanile del Duomo, e alla
comprensibile commozione si unì il sollievo di costatare che Siena
era ancora in piedi: gravi danni non pareva averli riportati.
Proseguendo con più lena
il cammino verso casa arrivò al bivio dello Stellino, dove incrociò
un tizio che conosceva alla guida di un camion. Era il primo senese
che incontrava, e la domanda immediata fu: “Com’è andata a
Siena?”.
Umberto Leoncini (seduto,
segnato con il n. 6) con altri commilitoni
Il camionista rallentò,
capì che Leoncini era un reduce di ritorno dal fronte, e senza
fermarsi rispose con una frase di straordinaria efficacia: “Il
Palio l’ha vinto la Lupa!”.
In sette parole dette al
volo, il camionista, rivelandosi in quell’occasione un formidabile
comunicatore, seppe riassumere una quantità di concetti, d’immagini,
di speranze e di certezze che in una circostanza meno eccezionale
avrebbero costituito argomento per un discorso lungo ore e ore.
Il Palio l’ha vinto la
Lupa. Ovvero, la guerra è passata, abbiamo potuto fare di nuovo il
Palio: se la città fosse stata travolta dalla guerra questo non
sarebbe stato possibile. Lasciamoci alle spalle tutto ciò che è
stato e guardiamo di nuovo avanti nonostante le enormi difficoltà
che abbiamo di fronte. Con quali strumenti guardavano verso il futuro
questi senesi? Con la loro tradizione, che è la stessa che abbiamo
ereditato noi e della quale il Palio è parte essenziale, e
soprattutto con le istituzioni storiche della città: Banca,
Università, Sclavo, Ospedale, anzi Ospedali, perché vi erano anche
l’Ospedale psichiatrico e il Sanatorio in cui lavoravano alcune
centinaia di senesi.
Questo è accaduto
realmente a Siena, anzi allo Stellino, il 25 luglio 1945. E questo
era il modo con cui i senesi di qualche decennio fa affrontavano e
superavano difficoltà di quel genere.
Da allora sono passati
sessantanove anni, e la città si trova oggi di fronte a una crisi
fortunatamente non sanguinosa, ma forse non meno grave di quella del
’45. Stavolta non c’è stata nessuna guerra, non sono passati
eserciti alleati o nemici, ma le istituzioni su cui i senesi basavano
la loro voglia di ripartire sono tutte in crisi, alcune addirittura
non esistono più.
E ora su quali basi
possiamo ricostruire quello che abbiamo perduto, che ci è stato
sottratto? Una domanda alla quale è difficile, molto difficile,
rispondere. Le persone che dirigono la città non possono però
esimersi dal darla, in maniera chiara e concreta. E nessun senese può
sentirsi esente dall’impegno di far sì che la città superi questa
fase storica paragonabile, forse, solo agli anni di metà Cinquecento
quando una decrepita Repubblica, che ormai sopravviveva a se stessa,
venne senza troppo sforzo conquistata dall’esercito spagnolo e
fiorentino.
È il momento di fare
cose concrete, senza dimenticare chi ha ridotto Siena in queste
condizioni ma, soprattutto, senza perdere tempo a rimpiangere ciò
che poteva essere e invece non è stato.
“Non amo che le rose
che non colsi” è un verso di una bellissima poesia di Guido
Gozzano, La Cocotte, noi non possiamo permetterci il lusso di
rimpiangere le rose non colte e dovremo pungerci le dita con
parecchie spine perché un giorno, speriamo non lontano, le rose
tornino davvero a fiorire a Siena.
Carroccio luglio-agosto 2014
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