Ascoltando dirigenti o semplici contradaioli, capita spesso di sentir
citare la tradizione come unica e insostituibile base della cultura
contradaiola, e magari gli ascoltatori si convincono che le Contrade, tutte
indistintamente, sono da sempre impegnate nel garantire la sopravvivenza di una
tradizione antica.
In realtà la cultura contradaiola è giunta a noi
estremamente frammentata, mutilata e spesso tramandata passivamente, senza cioè
la consapevolezza del motivo per cui certe cose sono state trasmesse e altre invece
sono state dimenticate. Alcune Contrade hanno conservato la loro tradizione,
altre, invece, con il tempo hanno smarrito il senso della tradizione e si sono limitate a fare, più o meno, ciò
che era sempre stato fatto e a imitare le Contrade più ‘tradizionaliste’.
La Pantera, purtroppo, è tra queste, e il suo
distacco dalla tradizione può essere ricondotto alla fine dell’Ottocento. In
quegli anni la Contrada subì una forte crisi e molti contradaioli si
allontanarono dalla Pantera stanchi di vederla gestita da poche famiglie, le
quali non si facevano scrupolo di usare sfacciatamente le risorse della
Contrada come fossero proprie. Alcuni oggetti, anche di un certo pregio, furono
“offerti” da contradaioli i quali, in realtà, li avevano acquistati con i soldi
della Contrada senza renderne conto a nessuno. Ci furono capitani e mangini
“espulsi a perpetuità” dalla Pantera per essersi platealmente venduti ad altre
Contrade (per la precisione, alla Torre nel 1893 e alla Giraffa nel 1897).
Una situazione del genere indusse molti
contradaioli a disinteressarsi della Pantera, tantoché tra il 1891 e il 1925 furono
tenute alcune assemblee generali con meno di dieci presenti, e due volte, nel
1891 e nel 1922, addirittura con solo cinque contradaioli.
L’assenza di persone valide e dotate di cultura
contradaiola determinò un progressivo distacco della Pantera dalla propria
storia e dalla propria tradizione fino e a perderne memoria. Alcuni grandi
contradaioli nati all’inizio del Novecento, e autori della ‘rinascita della
Pantera’ iniziata negli anni Trenta, come Gino Baroni, Umberto Leoncini,
Alberto Giannini, non avevano, per esempio, idea di dove fosse stata la
cappella di San Giovanni Decollato, nonostante questa fosse stata la prima sede
della Contrada e fosse stata demolita solo nel 1893. Un edificio significativo
nella storia della Pantera, ma il cui ricordo era rimasto nascosto nella nebbia
che in quell’epoca avvolgeva la Contrada. Il disinteresse per la vita trascorsa
della Contrada non indusse nessun panterino a salvare nel 1893 almeno una
lapide seicentesca che ricordava la storia della cappella e il suo legame con
la Contrada. Ma ancora più clamoroso, e anche un po’ comico, fu un episodio
avvenuto nello stesso anno: i panterini riuscirono addirittura a sbagliare l’animale
del proprio stemma e, confondendo la tigre con la pantera, stamparono sulla
carta intestata uno stemma con un animale con il manto striato anziché la
tradizionale pantera maculata.
Poi, con il tempo, qualcosa è stato recuperato, ma
un distacco così drastico dalla tradizione non è facile da ricucire. L’occasione
di ripercorrere la nostra storia per tornarne nuovamente in possesso ci verrà offerta
tra pochi mesi, con il nuovo allestimento dei locali. Del nostro passato
infatti qualcosa è rimasto: oggetti, monture, dipinti, documenti d’archivi non
sono freddi cimeli ma ricordi che, conoscendoli, possono tornare a esser vivi.
Ispirandoci a Pollicino, che seguendo i sassolini che
aveva seminato ritrovò la strada di casa, noi, seguendo la strada segnata dagli
oggetti, dalle monture e da tutto ciò che possediamo e riprendendo confidenza
con i nostri ricordi, potremmo riparlare di personaggi, ricostruire episodi
(anche divertenti) che costituiscono la tradizione della Pantera e ritrovare
finalmente la strada giusta per la Contrada. Avremmo quindi modo, dopo tanto
tempo, di tramandare ai nostri ragazzi l’essenza della Contrada. Ed è questo il
compito più importante di ogni contradaiolo.
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